C’era una volta l’Olbia Calcio. Potrebbe sembrare l’inizio di una favola, di quelle che un nonno moderno racconterebbe con nostalgia al nipote, ricordando i giorni in cui il calcio era ancora un gioco genuino, praticato per strada. Sì, perché tanti anni fa a Olbia non c’erano scuole di calcio o campi regolamentari: bastavano le strade poco trafficate o, per i più fortunati, i campetti di quartiere, dove quattro pietre delimitavano le porte e il campo di gioco veniva concepito solo nell’immaginazione dei giocatori. Non c’erano strisce bianche a segnare i confini, solo regole non scritte condivise da tutti.
A Olbia, i campi da gioco erano pochi e spartani: il campo dei Pavoni in zona Baratta, il Nespolino, dove un maestoso albero di eucalipto stazionava nella zona centrale verso l’ipotetica linea del fallo laterale, il più evoluto campo della Palmera e, infine, il Bruno Nespoli, allora un campo di calcio in terra battuta con una sola tribuna laterale e, dietro la porta, la famosa gradinata di ponente.
In quei luoghi semplici, chiunque poteva inseguire una palla, fosse bravo o meno. Nonostante le poche risorse, il talento sbocciava ovunque, e nomi come Marongiu, Giagnoni, Moro, Meloni, Secchi, Farina, Bagatti, Caocci, Petta e Spano riempivano d’orgoglio gli olbiesi. Nessun genitore doveva spendere un soldo per far giocare i propri figli: bastava una palla di cuoio e una passione sconfinata per il gioco.
Poi, con il passare del tempo, nuovi volti nati e cresciuti a Olbia fecero il loro ingresso nella squadra: Costaggiu, Ogno, Truddaiu, Leggeri, Muresu, La Rosa, Giua, Scugugia, Solinas (ci scusiamo se abbiamo dimenticato qualcuno) erano i talenti che nascevano nei settori giovanili affidati alla conduzione di ex calciatori appassionati e spesso non retribuiti. Ogni debutto era un evento, celebrato come l’arrivo di una nuova figurina Panini da collezionare. L’Olbia Calcio, con le sue maglie bianche, univa la città in un amore incondizionato. Già dal giovedì, giorno della partitella infrasettimanale, le tribune del Nespoli si riempivano come per una finale.
A guidare questa passione collettiva era il presidente Elio Pintus e poi il gruppo Putzu, Selleri e Balata, che per mezzo secolo tennero viva la fiamma del calcio a Olbia. Poi il mondo del pallone cambiò e arrivarono i nuovi “mecenati”, moderni investitori che, con grandi promesse e ambizioni espansionistiche, dichiaravano di voler portare l’Olbia ai vertici, proponendo addirittura la costruzione di uno stadio nuovo di zecca.
Ma i tifosi iniziarono a porsi delle domande: era davvero possibile che questi nuovi arrivati amassero così tanto l’Olbia da voler fare tutto ciò per la città? Perché costruire uno stadio nuovo quando quello attuale rimaneva vuoto? E soprattutto, perché non cercare talenti tra i giovani di Olbia, invece di guardare altrove per portare un Carneade qualsiasi quando è più facile cercare, curare, e far crescere i ragazzi “mazzi saliti” olbiesi?
Arriviamo ai giorni nostri, quando un gruppo svizzero acquista il 70% dell’Olbia Calcio per una cifra vicina a 1.400.000 euro, con un’aggiunta di 300.000 euro come fidejussione per la Lega. Nel bilancio della stagione 2022/23, però, le perdite accumulate erano di oltre un milione e mezzo di euro, i debiti verso fornitori superavano i due milioni e mezzo, e i debiti tributari e previdenziali ammontavano a centinaia di migliaia di euro. Una situazione finanziaria complessa, in cui a malapena si intravedono asset significativi: concessioni e licenze per meno di un milione di euro, immobilizzazioni immateriali e attrezzature per un totale di circa due milioni (mah!).
Quindi, cosa spinge davvero un gruppo finanziario a investire in una società calcistica con una situazione simile? La nuova proprietà non si tira indietro e investe nel calcio spendendo dei soldi senza però vedere un ritorno dal punto di vista sportivo. Sul campo, intanto, la squadra affronta difficoltà: dopo una retrocessione in Serie D, affronta un campionato difficile e occupa i bassifondi della classifica.
Da quando i nuovi proprietari sono al comando della società sono state giocate 15 partite di cui 6 in Serie C, con un solo punto realizzato e 9 in Serie D dove i punti conquistati sono solo 3. Eppure, solo per la Serie D in questo campionato sono stati spesi fior di quattrini. Come se non bastasse, sul club si abbatte una tempesta mediatica: accuse di razzismo e scommesse nello spogliatoio sono al vaglio della Procura Federale, mentre la squadra naviga tra scandali e incertezze. Davanti a questo mare agitato, i tifosi, il vero patrimonio di ogni squadra, si allontanano delusi. Addirittura, la tifoseria organizzata sembra essersi momentaneamente sciolta, simbolo di una disillusione profonda.
E così, l’Olbia Calcio, un tempo cuore pulsante della città e simbolo di passione genuina, si trova a fare i conti con una realtà diversa, lontana da quei tempi in cui bastava una palla e qualche pietra per costruire un sogno. La squadra è ora intrappolata in un turbine di problemi finanziari, gestioni incerte e scandali che hanno logorato l’entusiasmo di una tifoseria storica e appassionata, sempre più distante e disillusa.
Le promesse dei nuovi investitori, cariche di ambizioni e progetti scintillanti, non hanno saputo sostituire il calore autentico della comunità che, con il passare del tempo, ha smesso di credere in un futuro per i colori bianchi della città. Mentre il mister Lucas Gatti lotta per tenere accesa una fiammella di speranza, le tribune sempre più vuote e la tifoseria silenziosa rendono il futuro incerto, fragile.
Eppure, nelle strade e nei campetti di periferia, dove ancora si gioca per passione e non per fama, l’Olbia potrebbe ritrovare il suo spirito originario. Forse, da lì, da quei campetti polverosi e dai giovani sognatori che calciano un pallone per pura gioia, un giorno nasceranno nuovi talenti, capaci di riportare la luce di un tempo all’Olbia Calcio e di far tornare a sognare ogni cuore bianco.