
I residenti sono poco meno di 61mila e 700. Un altro dato statistico ci fa sapere che è la quarta città della Sardegna, dopo Cagliari, Sassari e Quartu (che poi è un’appendice dello stesso capoluogo sardo). Recenti studi però dimostrano che a Olbia (nei mesi non estivi) vivono almeno 20mila persone in più.
Il conto è presto fatto: basta consultare i numeri del consumo di energia elettrica e delle tonnellate di rifiuti solidi urbani. Qualche decennio fa, il quotidiano sardo più diffuso nel territorio usò, in un titolo a effetto, il termine “clandestini” per indicare le migliaia di residenti senza residenza.
In quell’occasione – a parte l’invito all’amministrazione comunale dell’epoca di scovare coloro che utilizzavano i servizi cittadini senza sborsare un euro (pardon, una lira) di tasse – si fece riferimento a tutte quelle leggi nazionali e regionali che erogavano risorse in base al numero dei residenti effettivi. Insomma, i “clandestini” provavano un danno doppio: si servivano gratuitamente dei servizi pubblici e facevano anche perdere soldi.
Oggi, questo argomento appare superato almeno nel senso che nessuno ne parla più: lo si dà per scontato, che Olbia – la città aperta per antonomasia, la comunità accogliente, che ospita qualcosa come 70 (sì, settanta) etnie diverse – abbia ormai la vocazione a svolgere la funzione di chioccia nei confronti di chi la sceglie anche per poco tempo, o ci arriva quasi per caso.
La premessa (forse un po’ lunga, e ne chiedo scusa) serve a formulare una domanda: quale ruolo intende svolgere la città nel suo futuro prossimo, e quale tipo di messaggio deve arrivare dalla capitale del nord est della Sardegna a Regione e governo? Sarebbe opportuno scoprirlo ora, a circa sei mesi dall’elezione del nuovo sindaco e del consiglio comunale che dovrà guidare la città dal 2021 al 2026, un quinquennio decisivo (si dice sempre così, ma questa volta non pare un’esagerazione), dopo la “rivoluzione” sociale provocata dal maledetto Covid 19? L’interrogativo non è peregrino, e neanche inopportuno, se si pensa alla campagna elettorale, già cominciata da mesi in modo convulso e un poco arruffone-
Baciata dalla fortuna per scelte del padreterno – è il centro più vicino alla penisola (125 miglia), il primo porto passeggeri dello Stivale, un aeroporto che fa registrare numeri record per l’imponente traffico estivo, un clima invidiabile – è spesso capitato che, storicamente, le sue felici caratteristiche geografiche non siano state accompagnate da una gestione della cosa pubblica all’altezza del suo valore e di ciò che merita.
Anni fa, qualcuno scrisse: “Olbia è talmente forte, che cresce nonostante i suoi detrattori”. Magari sarà pure vero, ma non sarebbe una cosa buona e giusta crogiolarsi su questo aspetto che genera invidia, rancore e anche antipatia da parte di chi rema contro il suo sviluppo, scambiando una realtà oggettiva per spavalderia o arroganza. E’ necessario che un po’ tutti facciamo un passo indietro, un piccolo bagno di umiltà, affinché questa comunità metta a frutto le sue peculiarità, sappia aggregare il territorio per diventare sempre più il punto di riferimento a 360 gradi di una Sardegna che cambia e che soffre.
Ci riflettano i cittadini. E soprattutto ci riflettano le centinaia di aspiranti amministratori che si stanno preparando a chiedere il voto ai residenti. A partire da chi sogna di fare il sindaco (la pattuglia è folta) per sfidare l’unico candidato ufficiale che è il primo cittadino uscente.