Un articolo può risvegliare ricordi e far rivivere emozioni che, pur essendo personali, riguardano il passato di un’intera comunità. E’ quello che è successo al terranovese Settimo “Momo” Mugano mentre leggeva in questa testata una descrizione, risalente al 1956, del viaggio in nave e dell’approdo all’Isola Bianca. Il primo flashback di Mugano, che ha alle spalle una lunga carriera di giornalista sportivo, ci riporta ai primi anni Quaranta al Porto Vecchio di Olbia: “Viaggiavo sul piroscafo Langano (varato nel 1894) che, levando l’ancora dal Molo Benedetto Brin, arrivava a Civitavecchia 12 ore dopo.
Le cabine di prima e seconda classe erano poche e care; era a buon prezzo il biglietto per la sistemazione in terza: una specie di stiva con una cinquantina di letti a castello per gli uomini e quasi lo stesso numero per le donne. C’erano tanti passeggeri che non erano mai stati su una nave; in preda al mal di mare, molti abbandonavano il camerone in cerca d’aria e di un bagno. Trascorrevano la nottata accoccolati lungo i ponti accanto ai loro bagagli che, durante le mareggiate invernali, venivano trascinati addirittura in mare. Quei poveretti scendevano distrutti dallo scalandrone della nave. Finita la guerra la Tirrenia ricostruì la sua flotta con navi più veloci e moderne, molte delle quali vantavano un sistema anti rollio.
Anche se il mal di mare continuava a tormentare i viaggiatori, a bordo si offriva un’accoglienza decisamente migliore rispetto al passato, con una traversata che, da dodici ore, si era ridotta a otto. I miei fratelli Gino, Ettore ed Enzo, invece di interessarsi alla gestione del ristorante, che mio padre, cuoco sopraffino, aveva aperto nei pressi della stazione ferroviaria di Olbia, scelsero altre strade. Gino andò in Africa a dirigere una stazione telegrafica dell’Esercito Italiano, Ettore ed Enzo furono assunti dalla Tirrenia e imbarcati sulle navi che facevano servizio tra i porti di Civitavecchia, Olbia, Palermo, Tunisi, Malta, Cagliari, Porto Torres.
Alla Tirrenia, da ragazzo, sono stato ” prestato” anche io. Un giorno sì e uno no, affittavo una bicicletta dal noleggio di Ciccillo Leggieri, andavo all’Isola Bianca a prendere la biancheria sporca dei miei fratelli e portavo loro quella pulita. Ogni volta, approfittavo dell’occasione per fare una doccia calda a bordo. Un giorno, dopo essere tornato a casa dal porto, venne a trovarmi Achille Bernardi e mi diede una gran brutta notizia: ero ricercato dai carabinieri a seguito di una denuncia, presentata da un portuale che mi accusava di avergli rubato la sua bicicletta. Era successo che, all’Isola Bianca, dopo la solita consegna di biancheria ad uno dei miei fratelli, avevo preso la prima bici che avevo trovato sotto bordo. Come sempre, prima di tornare a casa, l’avevo consegnata a Leggieri pagando il relativo noleggio.
Il “furto”, che era invece uno scambio dovuto alla mia proverbiale distrazione, fu spiegato e risolto a tempo di record: il portuale recuperò la sua bicicletta nel negozio del noleggiatore e io ritornai all’Isola Bianca per riportare a Leggieri la sua. Una decina di anni dopo mio fratello Ettore, diventato Maestro di Casa sulle navi Tirrenia, esattamente come mio cognato Emanuele Modica, è stato di grande aiuto per molti olbiesi che, dovendosi recare in Continente e non trovando posto sulle navi di linea, si rivolgevano a lui per risolvere il problema dell’imbarco. La soluzione era questa: salivano a bordo come visitatori e il biglietto lo pagavano nell’ufficio del Commissario.
Un altro ricordo risale all’immediato dopoguerra quando le navi della Tirrenia venivano utilizzate anche per il traffico del mercato nero del formaggio sardo tra Olbia e Civitavecchia. Era praticato, più per divertimento che per sete di guadagno, da mio fratello Ettore e dai suoi tanti amici del gruppo dei “vitelloni” che stazionavano nei lunghi pomeriggi estivi sui tavolini del bar di Nardino Defilippi. I sacchi del formaggio venivano caricati sulle barche a remi che servivano al trasporto dei bagnanti dal Rione La Croce alla mitica spiaggia di Mogadiscio. Quando io, ingaggiato come “palo”, avvertivo che nella zona non c’erano finanzieri in vista, i “trafficanti” raggiungevano la nave in rada. A quel punto, un marinaio apriva lo sportello laterale, il formaggio veniva portato a bordo e venduto a Roma, meta preferita dal gruppo dei vitelloni-contrabbandieri. Lo spirito goliardico che li animava è ben sintetizzato da un telegramma inviato da uno dei componenti alla propria famiglia: “Venduto formaggio, mandate soldi per il ritorno”.