Nizzi: “Stop al degrado urbano. Per sedersi ci sono i bar”. Questo il titolo di un articolo che estrapola una frase detta dal sindaco Nizzi riguardo all’ultima decisione della sua amministrazione.
Confesso che, pur conoscendo ormai da molti anni il suo pensiero, questa volta fino all’ultimo ho sperato si trattasse di una notizia falsa; ma la notizia è vera e lui la espone con un linguaggio colorato di grigio. Ragiono, metto insieme i pensieri, le emozioni, ma è difficile dargli un ordine: sono troppe le cose assurde in tutto questo.
Provo a pensare per prima cosa al significato della parola “piazza”: spazio di raccolta, di aggregazione nata fin dall’antichità per accogliere i cittadini. Subito dopo collego alla parola piazza la parola “panchina” e il collegamento è immediato, logico: per accogliere, far convergere attività, scambi, aggregazione è naturale e necessario che nelle piazze ci siano le panchine. Nella mia mente non riesce a prendere forma l’idea di una piazza senza panchine anche a livello estetico.
La parte emotiva prende il sopravvento e non posso credere che si possa ridurre il senso della piazza, della cittadinanza attiva (sedersi su una panchina di una qualsiasi città ci dà la prova che siamo cittadini attivi, che apparteniamo a un sistema in cui possiamo liberamente e gratuitamente essere proprietari del “suolo pubblico”) a un “sedersi” e per di più “sedersi al bar”, quindi vendere la nostra libertà personale e comunitaria pagando forzatamente uno spazio privato.
Il pensiero continua e afferra che tutto ciò è per “combattere il degrado” della città; a questo punto per me diventa quasi impossibile riuscire a capire: come si può pensare di combattere il degrado con il degrado? Spogliare una piazza dalle sue panchine vuol dire degradarla. Come si può non pensare che il degrado si combatte dando vita a quelle piazze, che bisogna aggiungere e non sottrarre, che quelle piazze hanno bisogno di cultura, di arte, di bellezza? E com’è possibile pensare che, anche se si ottiene tutto questo, non ci sia chi sceglie liberamente di poterci anche dormire in quelle piazze, su quelle panchine, nel rispetto del prossimo; come si può non pensare che il degrado va curato alla radice e con iniziative che possano farlo guarire, non infettare maggiormente.
Trovare ordine, seppur con immenso sforzo, è davvero difficile, ma poi approdo nel pensiero del “decoro urbano” (altri sindaci di altre città italiane hanno già amputato le loro piazze) e a questo punto inizio a non aver più speranza perché so che qui la partita è persa, perché so che l’apparenza, la finzione e l’ipocrisia sono ormai le bandiere di quella che un tempo e storicamente era Olbia: la città, il porto dell’accoglienza.
E così il mio cuore si rattrista del tutto e il mio ultimo pensiero va ai miei nonni che per una vita si sono seduti su quelle panchine: tenendosi per mano, conversando coi coetanei, osservando le nuove generazioni di ragazzi seduti su panchine vicine, ascoltando nuove lingue parlate da persone arrivate da continenti diversi…
Si dirà che erano altri anni, che la cattiveria ormai è ingestibile eccetera. Io so solo che credo e continuerò a credere negli esseri umani, nella loro bellezza, nel loro bisogno di inclusione, condivisione e guarigione.
Chiudo ricordando le parole usate dal sindaco Nizzi quando Olbia è diventata “città gentile”: “Aderiamo con entusiasmo a una iniziativa che rispecchia l’anima di Olbia, città dell’accoglienza e della solidarietà, un modo per certificare e incentivare una tendenza che caratterizza da sempre gli abitanti del nostro territorio”.
Riflettiamo affinché queste parole abbiano un senso.
Con estrema gentilezza,
Gioia Scanu