Si sono svolti questa mattina alla chiesa della Sacra Famiglia di Olbia i funerali di Giorgio Ruiu, ma siamo certi che solo i familiari conoscevano il suo nome di battesimo. Tutti gli altri lo chiamavano Il Greco, come si chiama di solito un attore o un mito. E lui era entrambi.
A differenza del quasi omonimo “El Greco”, pittore e scultore ellenico tra le figure più importanti del tardo Rinascimento spagnolo, “Il Greco” olbiese non dipingeva ma era un artista nel vendere canne da pesca agli eschimesi. Era un grande affabulatore e con il suo staff aveva creato un format interno ma lui era capace di venderti i jeans più costosi (lui aveva i migliori senza ombra di dubbio) facendoti sentire elegante come Roger Moore in doppiopetto e rosa al taschino anche se eri alto 1 e 50 e avevi il fisico simile a un trolley.
Potevi girare dove volevi ma poi tornavi sempre da lui. Personalmente mettevo i soldi da parte per arrivare a 15 mila lire per potermi permettere i Roy Rogers, i Fiorucci o persino i Bakamak. Tutti, ovviamente, a zampa d’elefante. E più era ampia, tanto da coprire interamente i Camperos (e chi se li poteva permettere?) e più eri figo…ma ai miei tempi al massimo si diceva “bono”. Figo era una parolaccia e neanche la conoscevamo.
Splendidi e spensierati anni “70. Il Greco ha surfato in anticipo, come tutti i visionari, sulla nascita delle griffe di consumo. L’orgoglio di portare un logo alla moda sui vestiti è cominciato allora. Ricordo ancora la vetrina. I suoi Jeans erano piegati tutti alla stessa maniera, uno sopra l’altro, per esaltare la vita bassa prima, e alta più tardi.
Credo di aver trascorso più tempo davanti alla vetrina del Greco che davanti al negozio di motorini di Silanos o Luppacciolu nel curvone di via D’Annunzio. Da una parte mi specchiavo con addosso i jeans esposti e dall’altra fissavo in catarsi il Deem a tre marce (poi arrivò il SuperRoket, il Caballero era roba per ricchi). Con le ginocchia che toccavano il manubrio del mio Fantichino, andavamo in due, ovviamente d’inverno, a giocare a Tennis a Porto Rotondo con la speranza di non farci beccare dal custode.
Che tempi! E pensare che siamo ancora vivi. Un miracolo. Noi ragazzi post sessantottini cresciuti a colpi di Bee Gees e Kool & The Gang, tra un allenamento e una partita delle giovanili dell’Olbia guidati da Silverio Balzano, eravamo persino capaci di riempire i diari di scuola con gli adesivi: Americanino, Lee Cooper, Les Copains ecc. Per noi erano tutti Jeans (PS. La parola “Pantaloni” era da grezzi o come si diceva tra noi da “sgiolti”) rigorosamente made in USA, mica sapevamo che la provenienza era in gran parte partenopea. Un po’ come coloro che oggi sono convinti che Harmont & Blaine (quella del marchio del bassotto) sia una griffe British salvo poi scoprire che l’azienda è una splendida multinazionale di Frattamaggiore.
Il Greco ci ha lasciati con il suo mondo meraviglioso nel quale si trovava come un pesce nel mare di Tavolara. E anche noi. Ci ha vestito, noi 60enni di oggi che a quei tempi andavamo nei Club in cerca di intrighi mentre al Nuovo Parco si ballava “alla Scrock” (chi ha meno di 60 anni chieda ai più più grandi un saggio del passo…imparatelo la tradizione va perpetrata! altro che Tuca Tuca.
Abbiamo portato i jeans del Greco per oltre un decennio, poi, come succede fatalmente nel commercio, lo hanno copiato in molti ma solo lui era l’originale. Il Greco è stato l’uomo giusto al posto giusto e, soprattutto, al momento giusto. Che nostalgia. Se trovassi il pulsante di reset è nel suo negozio che vorrei tornare con un trasferimento molecolare. Lui non si scomporrebbe: “Questi Jeans di stanno a pennello costano poco: 15 mila lire”.